Valentina Conte

Roma N on è solo il divario incredibile che separa la base dal vertice. E che consente a un top manager bancario italiano di incassare ben 85 volte il suo dipendente, addirittura 143 la media dei suoi sottoposti, se amministratore delegato in una big del listino milanese. Ma è lo scollamento sempre più devastante tra gratifiche, bonus, super premi assegnati ai numero uno e i risultati agghiaccianti delle loro gestioni. Cronache americane e d’Oltremanica degli ultimi anni, originate dai crac di colossi finanziari dai piedi d’argilla, ci hanno raccontato di prebende record distribuite a pioggia proprio ai manager responsabili di quei disastri che al momento di abbandonare la nave incagliata ne uscivano pure con liquidazioni far aoniche. Profondo rosso e premi stellari: un’accoppiata mortale, non del tutto sconosciuta neanche in Italia. Il tema dei bonus ai manager troppo generosi, slegati dalle performance, indecenti in tempi di crisi – è tornato a ringhiare in Europa dopo il vento forte del successo referendario del 3 marzo in Svizzera. Quasi il 70% dei votanti si è espressa perché siano gli azionisti e non i consigli di amministrazione a fissare le super retribuzioni. Pochi giorni dopo, l’Ecofin ha però dovuto congelare, per il veto britannico, l’accordo di massima raggiunto da Parlamento e Consiglio europeo: la parte variabile della retribuzione non può superare il doppio della fissa e solo se due terzi degli azionisti sono d’accordo. Regola che varrebbe

per tutte le banche europee, loro filiali extra Ue e istituti stranieri con uffici nel Vecchio Continente. «Un’idiozia di politica economica», l’ha bollata il sindaco di Londra Johnson, schierato con i 144 mila banchieri della City, che si teme fuggano in Usa o Asia. Il Financial Times raccoglie da giorni le loro doglianze. La controproposta all’ombra del Big Ben punta a fissare i premi in contanti per i banchieri a un livello non superiore agli introiti annui, senza però limiti ai piani di incentivazione a lungo termine. Respinta, per ora, dalla Ue. Tutti in ordine sparso, dunque. Mentre nulla cambia. E l’Italia? In fatto di emolumenti maxi, non ci possiamo lamentare. E anche se la crisi ha tagliato i bonus dei banchieri europei del 60% e le retribuzioni del 20% (secondo lo studio di Ferrarini e Ungureanu dell’università di Genova), i top manager delle grandi aziende italiane (non solo banche) quotate di Borsa sono al quinto posto tra i più pagati d’Europa. Secondo la classifica stilata da Ecgs, società di ricerche, e relativa alle remunerazioni distribuite da 392 aziende europee (di cui 38 nostrane) nel 2011 ai loro Ceo, gli italiani hanno portato a casa una media, ed è solo una media, di 3,3 milioni di euro, per un terzo “variabile” (e dunque bonus). In un anno in cui il Paese era appeso allo spread, a quattro manovre finanziarie, alla quasi lettera di commissariamento della Bce, a un governo incapace e bloccato, sostituito in corsa da un esecutivo tecnico. In classifica, ci precedono la Gran Bretagna (sopra i 5 milioni) e la Svizzera (attorno ai 4), dove il bubbone è ormai scoppiato almeno nel dibattito pubblico. Ma anche la Germania (oltre i 4), seconda dopo la City, e a sorpresa la Spagna, quasi al livello elvetico, nonostante i 5 milioni di disoccupati e la crisi devastante. Generalizzare non è mai troppo utile. Ma i casi eclatanti, quelli finiti in copertina, i più chiacchierati e smisurati, rischiano di accendere la miccia di populismi, ma anche di legittime richieste a rivedere le regole del sistema, quantomeno. L’ultima storia, in ordine di tempo, è il tesoretto da favola promesso a Daniel Vasella, presidente uscente del colosso farmaceutico Novartis: 12 milioni di franchi per sei anni, 71 milioni in tutto, ovvero ben 59 milioni di euro. Un’enormità, in cambio di consulenze e della non concorrenza. «E numm a pagüm!». E noi paghiamo, era lo slogan dei referendari svizzeri. Mentre la protesta dilaga per valli e monti, il gigante bancario di casa Ubs verserà bonus anche per il 2012 (ridotti però del 7% sul 2011 e del 42% sul 2010), nonostante la maxi multa da 1,4 miliardi di franchi per la manipolazione del Libor e una perdita netta nel 2012 di 2,51 miliardi di franchi, contro un utile di 4,16 miliardi dell’anno prima. Anche Royal Bank of Scotland marcia verso un patteggiamento miliardario per la vicenda Libor, ma non rinuncia ai bonus (forse li sforbicerà del 30% rispetto ai 390 milioni dell’anno passato). Jamie Dimon, numero uno di Jp Morgan, vedrà le sue prebende di banchiere più pagato al mondo quasi dimezzate (giù del 53%), certo. Ma passerà da 23,1 milioni di dollari (21,5 di bonus e 1,6 di stipendio) a 11,5 milioni quest’anno, cifra da capogiro, nonostante la vicenda della “balena bianca”, un’operazione speculativa andata male a Londra e costata alla banca oltre 6 miliardi di dollari. Il secondo manager più pagato d’Europa è Bob Diamond, l’ad di Barclays, un altro banchiere d’oro che nel 2011 “pesava” 17,5 milioni di euro. Lo spagnolo Alfredo Sàenz del Santander ne ha intascati 16 di milioni. Josef Ackermann di Deutsche Bank ben 9 milioni (+5% sull’anno prima). Il numero uno di Volkswagen, però, Martin Winterkorn, ha di recente chiesto un taglio ai suoi 20 milioni di paga. «Sarebbe difficile spiegarlo alla gente», ha detto con realismo, nonostante il record storico di vendite della casa tedesca (oltre i 9 milioni di auto) possa se non legittimare, quantomeno giustificare quella cifra. Ripensamenti cominciano però a spuntare, qui e là. Lloyds Banking Group, ad esempio, la celebre banca britannica, studia incentivi spalmati su un decennio e legati al titolo, eliminando così i bonus annuali. Una mezza rivoluzione (ma il bonus di un impiegato inglese nel privato non arriva a 2 mila sterline). In Italia il re incontrastato è Marco Tronchetti Provera con 22,96 milioni lordi, il manager più pagato nel 2011 e nella top ten europea (vale 877 suoi stipendiati, secondo Sergio Carbonara di Frontis Governance, società di consulenza). Ma a casa nostra, come si diceva, non sempre le super gratifiche trovano spiegazione nei risultati aziendali. Tanto più che, per considerare le sole banche quotate, nel 2011 il loro utile netto si è ridotto di 26,3 miliardi e in Borsa hanno bruciato il 45% del loro valore. E invece, ci racconta lo studio della Uilca (la sezione della Uil dedicata al credito) i compensi dei ceo sono lievitati del 36,23% nel 2011 sull’anno prima, da 19 a 26 milioni (ultimo dato disponibile, a breve avremo i nuovi bilanci). Certo, una crescita figlia anche delle dimissioni di 4 top manager, “costati” 9,7 milioni di euro. Ma pur sempre disallineata rispetto sia alle performance di Borsa che di bilancio. Cifre che portano appunto il compenso medio del banchiere a 85 volte quello del dipendente. Senza parlare poi del Monte dei Paschi di Siena, il cui versante giudiziario è bollente. Nel 2011 chiude con una perdita consolidata di 4,68 miliardi, il titolo brucia il 65% del proprio valore, ma il direttore generale Antonio Vigni diventa il banchiere più pagato d’Italia: 5,4 milioni di cui una buonuscita di 4. Così Fonsai: nel 2011 ha perso oltre l’83% in Borsa, polverizza quasi due terzi della capitalizzazione di inizio anno, eppure l’ad Fausto Marchionni va via con 10 milioni e mezzo di euro. Non migliore l’uscita di Enzo Chiesa, ex ceo di Bpm: 2,35 milioni, nonostante le difficoltà dell’istituto. Mentre Jonella e Paolo Ligresti intascano 2,51 e 2,14 milioni nel 2011 con Fonsai in rosso di oltre un miliardo e mezzo in due anni. Al vento le parole del governatore della Banca d’Italia che più volte ha sollecitato l’allineamento bonus- risultati: il 31 maggio dello scorso anno, al Forex di inizio 2013 («niente bonus se ci sono perdite») e da ultimo venerdì scorso. «Le politiche di remunerazione vanno riviste, per allineare meglio i compensi ai risultati di lungo periodo corretti per il rischio ed evitare gestioni miopi o inutilmente rischiose», ha insistito Visco, intervenendo all’Accademia dei Lincei. Tra l’altro Bankitalia non si limita a raccomandare sobrietà, ma l’ha formalizzata nella disposizione del marzo 2011 (rapporto «opportunamente bilanciato» tra parte variabile, i bonus, e fissa). Non solo. Un decreto legislativo del 2010 (il 259) impone alle società quotate una “Relazione sulla remunerazione”, proprio per accrescere la trasparenza. Ma ancora oggi è un’impresa trovarla nei bilanci e sul sito della Consob. IL VETO DI LONDRA Londra: la City ha bocciato le proposte Ue di nuove regole sulle retribuzioni dei manager: “Un’idiozia di politica economica”, le ha definite il sindaco londinese Johnson LA CLASSIFICA DEI MERITI Nella tabella qui sotto, elaborata da ManagerItalia, le risposte ricevute dal sondaggio che ha chiesto a oltre duemila manager italiani quali siano stati i fattori che maggiormente hanno prodotto l’ottenimento del bonus. Al primo posto i ricavi, ma colpisce che solo nel 15% dei casi sia stata premiata la capacita di innovare, in particolare i prodotti. E perfino l’efficienza nell’utilizzo di risorse umane
e impianti è piuttosto in basso nella classifica, con un “peso” attribuito dalle risposte di poco più del 25%